Per risanare la spesa pubblica italiana occorre intervenire ancora sulle pensioni. E’ un fatto spiacevole ma vero, visto l’enorme divario nel peso percentuale della previdenza sulla spesa pubblica tra Italia e resto del mondo. Divario inevitabile quando un generoso sistema “a prestazione definita”, tutto a carico del settore pubblico, non viene aggiornato per decenni: l’età pensionabile è rimasta sostanzialmente invariata tra il 1960 ed il 2005, mentre l’aspettativa di vita cresceva di 9 anni. Mai fu più vero il detto che gli statisti pensano alle prossime generazioni, gli statalisti alle prossime elezioni (mio riadattamento).
Tagliare dunque, pur toccando i famigerati diritti acquisiti: ma dove è giusto farlo ? Quando tagli, il tagliato urla: sarebbe ingiusto pretendere il contrario, ma sciocco orientare il bisturi in funzione dello strepito. Bisogna trovare una logica, numeri alla mano e senza demagogia.
La sola soluzione corretta è a mio avviso quella del “default specifico”, cioè di individuare quelle realtà che, se avessero dovuto mantenere una autonomia patrimoniale e giuridica del proprio ente pensionistico (poi tutti sciaguratamente transitati in INPS senza pagare pegno) sarebbero saltati per aria. Qui non c’è “diritto acquisito” che tenga: chi ha fatto la promessa sarebbe fallito, e la promessa non sarebbe stata onorata. Cara grazia che è arrivata l’ INPS a rilevare il debito, e siano contenti che il prezzo da pagare per evitare il default viene esatto solo ora, e non è insorto “ab initio” se non addirittura retroattivamente.
C’è un precedente, quello dei dirigenti industriali: quando l’ INPDAI, gestito da una banda di deficienti o criminali, nel 2000 si “accorse” di avere ormai un pensionato per ogni dirigente attivo e di essere al collasso venne “salvato” dall’ INPS, con criteri discutibili ma che almeno prevedevano una tassa a carico dei dirigenti stessi, e non indifferente.
Poiché la quota maggioritaria (5 Mld€ su 9) dello squilibrio finanziario INPS, ripianato inevitabilmente a spese dell’ Erario, viene dalle pensioni degli ex dipendenti pubblici, nonché dal famigerato “parastato” (ex dipendenti Enel, SIP e Ferrovie in particolare), è lì che le pensioni devono essere tagliate. Condizioni di privilegio insostenibili, che infatti gli enti previdenziali specifici non avrebbero potuto sostenere, che vanno ridefinite per allinearle con i trattamenti previsti per chi viene dal privato. Urleranno dal dolore, e li capisco, ma giova in questo caso ricordare la non irrilevante differenza tra “lucro cessante” e “danno emergente”.
Questa soluzione correggerebbe in parte un’altra follia del sistema previdenziale italiano: non ci crederete, ma chi è andato in pensione da “ggiovane”, anzi quasi bambino, ha oggi una pensione più alta di chi ci è andato da anziano: le pensioni infatti di chi ha tra i 50 ed i 54 anni sono nella media del 25% più alte di chi ha tra i 60 ed i 64 anni, ed esattamente doppie di chi ne ha oltre 80 (pensioni di vecchiaia e anzianità).
Tagliare si può, e si deve farlo così. Da più parti, comprensibilmente, si è anche chiesto di intervenire sulle pensioni più alte maturate con il sistema retributivo, riallineandole a quanto avrebbero generato i contributi versati. Per parecchie ex-casse speciali questo sarebbe sacrosanto, ma non lo è per il grosso degli ex lavoratori INPS. Infatti in passato, senza che nessuno lo dicesse, una quota molto importante ( fino a quasi la metà per i livelli medio-alti) dei contributi abili a “fare pensione” eccedenti i 36 milioni di Lire veniva di fatto “redistribuita” e non trasformata in pensione per l’interessato. In pratica, lo stato tassava le pensioni dei borghesi non solo dopo che fossero maturate, ma, in aggiunta, anche prima ! Prima di tassare per la terza volta i poveretti, andiamo ad acchiappare chi finora ha vissuta sulle spalle degli altri.
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